QUI nON SI PARLA DI POLITICA

(Siro Merlo)

C’è una storia curiosa che vale la pena raccontare. Immaginiamo di essere al cinema negli anni ’30. Sui muri, un cartello rassicurante: “Qui non si parla di politica”. Perfetto, pensiamo, finalmente due ore di puro svago. Ma prima che le luci si spengano, risuona l’inno nazionale, poi quello del partito e, prima del film vero e proprio, un cinegiornale che celebra le ultime “conquiste” del governo.
Strano, vero? Se davvero “non si parlava di politica” perché tutto questo preambolo musicale e visivo?

La Scoperta di un Meccanismo

Quello che i ricercatori hanno iniziato a comprendere solo dagli anni ’70 è che stavamo osservando qualcosa di straordinariamente sofisticato: la prima industria della persuasione di massa della storia moderna. Non si trattava di propaganda grossolana, ma di una comprensione intuitiva (e poi sempre più scientifica) di come funziona la mente umana.
Tutti noi quando guardiamo un film o ascoltiamo musica, abbassiamo naturalmente le difese. Siamo lì per il piacere, per l’emozione, per dimenticare i problemi quotidiani. È proprio in questo stato di apertura che diventiamo più ricettivi a messaggi che altrimenti filtreremmo criticamente.
I cineasti dell’epoca lo avevano capito perfettamente. I film che si producevano negli anni ‘30 (ad esempio il filone dei “telefoni bianchi”) erano spesso commedie romantiche eleganti e leggere, scritte e progettate per essere assorbite senza sforzo. Nulla di troppo impegnativo e niente che richiedesse particolare preparazione culturale; solo intrattenimento che dolcemente scivolava nella coscienza collettiva.

Il Suono che Entra nelle Case

Ma il vero colpo di genio arrivò con la radio. Improvvisamente, non si doveva più uscire di casa per ricevere contenuti. La “radio-balilla”, economica e alla portata di tutti, portava musica, notizie, programmi direttamente nel salotto di famiglia. Una presenza costante, familiare, quasi intima.
È interessante notare come oggi tendiamo a sottovalutare l’impatto di questa rivoluzione. Per la prima volta nella storia umana, milioni di persone sentivano contemporaneamente le stesse canzoni, gli stessi programmi, le stesse notizie. Si stava creando, letteralmente attraverso le onde sonore, un’esperienza condivisa nazionale.
La musicologia dell’epoca (quella seria, accademica) guardava dall’alto in basso tutta questa produzione. “Roba commerciale”, dicevano. “Propaganda, non arte vera”. Così, per decenni, nessuno studiò davvero cosa stava succedendo. Come se ignorare il fenomeno potesse farlo sparire.

Quello che Abbiamo Imparato Dopo

Solo molto più tardi i ricercatori hanno iniziato a rendersi conto di aver trascurato qualcosa di enorme. Walter Benjamin (filosofo, scrittore e critico letterario) fu uno dei primi pensatori a intuirlo; parlava di “estetizzazione della politica” ovvero l’idea che il potere non si esercita solo attraverso la forza o le leggi, ma trasformando la politica stessa in spettacolo, in esperienza estetica. Oggi sappiamo che aveva ragione. La neuroscienze ci mostrano che la musica attiva aree del cervello legate alle emozioni e alla memoria molto prima che la corteccia prefrontale, quella deputata al pensiero critico, possa intervenire. Un jingle orecchiabile crea connessioni neurali che durano anni e una melodia associata a un’immagine può richiamare emozioni anche a distanza di decenni. Ma forse l’aspetto più affascinante è che tutto questo succede al di sotto della soglia di consapevolezza. Noi pensiamo di scegliere liberamente cosa ci piace, cosa ci emoziona, cosa riteniamo giusto o bello. In realtà, queste preferenze sono state plasmate da migliaia di piccole esposizioni musicali e visive accumulate nel tempo.

Echi Contemporanei

Girando lo sguardo al presente, è difficile non notare certe somiglianze. Le playlist di Spotify che “conoscono i nostri gusti” meglio di noi stessi. I video di TikTok che scorrono in un flusso ipnotico, ognuno calibrato per mantenere alta l’attenzione. Le colonne sonore dei film Marvel che ci fanno sentire eroi anche quando usciamo dal cinema.

Non si tratta di sentirsi circondati da complotti o manipolazioni deliberate (anche se talvolta ci sono) ma di osservare semplicemente che gli stessi meccanismi psicologici adottati con successo novant’anni fa funzionano ancora oggi. Anzi, con la tecnologia digitale, sono diventati infinitamente più precisi e personalizzati. Quando Netflix ci suggerisce “il prossimo film perfetto per te”, quando YouTube ci propone video “che potrebbero interessarti”, quando Spotify crea la playlist “Discover Weekly”, stiamo assistendo alla versione contemporanea di quella che un tempo si chiamava “programmazione culturale”.

La Bellezza del Dubbio

Il lato più interessante di tutta questa storia non è tanto la denuncia di presunte manipolazioni, quanto l’invito a sviluppare una curiosità più profonda verso noi stessi. Perché quella canzone ci piace tanto? Cosa ci attrae davvero in quel film? Quanto delle nostre preferenze estetiche è davvero “nostro” e quanto è stato delicatamente coltivato da qualcun altro?
Non è il caso di diventare paranoici o di smettere di godersi la musica e il cinema. Si tratta piuttosto di aggiungere uno strato di consapevolezza alla nostra esperienza culturale, di imparare a riconoscere quando stiamo “ricevendo” invece che “scegliendo”.
La storia del cartello “Qui non si parla di politica” ci insegna che i messaggi più potenti sono spesso quelli che non si presentano come tali. Sono quelli che entrano dalla porta di servizio dell’intrattenimento, si accomodano nel salotto delle nostre emozioni e, con grande cortesia, si mettono a riorganizzare i mobili della nostra mente.

Dopo tutto, forse, la migliore difesa non è la diffidenza, ma la curiosità: chiedersi, di tanto in tanto, cosa stiamo davvero ascoltando quando pensiamo di…
“star solo ascoltando musica”.

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